Quando l'arte divorziò dalla scienza

Dopo aver camminato insieme per millenni, arte e scienza hanno divorziato una sessantina di anni fa. L'optical art, che alla fine degli anni Cinquanta nasceva dallo studio rigoroso della percezione visiva e si serviva delle conoscenze tecnologiche per costruire le immagini, è da considerarsi fra gli ultimi esiti di un matrimonio cominciato nell'antico Egitto dove le costruzioni delle piramidi si basavano su sofisticati calcoli del movimento del sole. Anche le ricerche dei Macchiaioli sugli accostamenti di colore-ombra e colore-luce sono da inserire in quella lunga catena che ha tenuto insieme la sezione aurea dei templi greci con gli studi di Leonardo sulla percezione dell'aria che frapponendosi all'occhio rende «azzurrine» anziché verdi le montagne sul fondo della Vergine delle Rocce. Lo stesso fil rouge che ha legato la Flagellazione di Cristo, dove Piero della Francesca applica le lezioni matematiche del suo trattato sulla prospettiva, alle dissezioni dei cadaveri da cui Michelangelo imparò l'anatomia umana; le distorsioni prospettiche della visione da sotto in su nei soffitti illusionistici di Pietro da Cortona, agli effetti ottici della luce sulla Senna catturata dagli Impressionisti.

Il filo conduttore è dunque unico, ma se fino all'inizio dell'Ottocento le conoscenze scientifiche erano lo strumento dell'artista per imitare la realtà, a partire dalla rivoluzione della scuola di Barbizon, con la pittura en plein air, l'interesse si spostò dal desiderio di mimesi della realtà, a quello di catturarne l'impressione ottica. Non importano più la precisione dei dettagli, la correttezza delle regole accademiche di prospettiva, proporzioni, simmetria. Quello che importa è mettere in gara la pittura con la visione sempre mutevole dell'occhio.